Forse Dino non aveva tutti i torti: ad Ostia Mare il governo avrebbe dovuto vietarle certe cose.
Libri,
fiori,
smancerie,
droghe,
dichiarazioni d’amore.
Era un gioco bello, ma pericoloso.
Dino me lo diceva: - Tony, sei un fottuto cronico. -
Ed io non avrei più fatto uso di trip e acidi o scopato con una donna.
Di Bunker Hill l’Ostia Mare che ci apparteneva aveva palazzi condominiali grigi e in serie, la boxe di palestra e di strada, bulli tatuati in canottiera, bidoni di cherosene, carcasse d’auto, lunghe linee ondulate di catrame sulla spiaggia, due o tre pescherecci, uno yacht di passaggio, qualche pellicano.
C’era chi spacciava. Chi ballava nudo e ubriaco e ringhiava alle stelle e si buttava o lo buttavano in acqua. Chi rideva e piangeva. Chi sputava. Chi schiodava e dava di matto. Chi mostrava i pugni. Chi li scaricava in faccia: operai imbufaliti, madri disperate.
Harley davidson, star di Cinecittà e volanti di polizia da quelle parti ne sgommavano poche.
Io e Dino, vent’anni, ultima porta del cielo, ultimo piano: Bob Marley, Che Guevara, poster a stelle e strisce, croste in bilico sul muro.
Io e Dino, il sogno americano: due aerei con ali di cartapesta, colati a picco, in mare.
E ce lo fumavamo: on the road, coast to coast, a zoccole e marijuana.
Cannavo, al massimo tiravo di naso.
Un tiro caldo e profondo aspirato come un cazzotto nello stomaco, l’altro freddo sputato col sangue.
Era divertente.
Davvero uno spasso.
Luna park: giostre, bambole di pezza, palloncini, zucchero filato.
Marta era ancora lontana: farfalla baciata dalla rugiada.
Un sogno che non osavo sognare.
Dino mi procurava fumo e soldi. Voleva che non perdessi tempo e trovassi un lavoro.
Scaricava cassette di acqua minerale, lui, nei bar di Roma.
Avevamo lo sballo in comune. Abitavamo una stanza vorticosa e le mura ci si scaraventavano addosso.
Lui non capiva l’importanza di fissare il televisore spento, ascoltare i rumori dalla strada e partorirne una stella danzante.
C’era puzza e sudore anche in quello.
Era fico,
maledetto,
intellettuale.