Per fortuna arrivò Marta.
Quella vera.
Carne e ossa.
Le stelle danzavano un lento dolcissimo al chiaro di luna.
Noi due a piedi nudi, nudi: ferri rugginosi sbatacchiati qua e là dalle onde. Polpi corrosi. Stretti a galla. Spuma e sale.
Ad Ostia mare tra sabbia, mozziconi di sigarette, fanghiglia acquitrinosa, polvere di luna e conchiglie, troneggiava un residuo bellico.
‘For your children’: bomba tedesca griffata a svastica con dedica americana.
Io e Marta eravamo un’eccezione.
Quella sera, cominciò a nascere e morire un lui o una lei. Quella sera, cominciò a nascere e morire qualcosa o qualcuno.
…Chiudi gli occhi nei miei e con un bacio incendiami l’anima. Qui dove il secolo è il battito e il battito è un unico respiro. Un ponte tra noi. Due corpi in uno. Carezza eroina.
Marta era una dritta. Dipingeva col corpo. Tele, pareti, il mio ventre. Lei non immaginava i buchi neri e i vortici, i puntini viola in volo schizzinoso nella mia stanza. Serpenti, o lividi, denti aguzzi di squalo, pesci spolpati, branchie scoppiate in aria, spine ficcate negli occhi: lì, dove tutto è blu.
Liquido.
Denso.
Piatto.
Notte, più che mare.
Lei non intuiva.
Il battito dell’orologio.
L’ora ferma.
Lo stop.
Prese dei colori anche per me. Rosso scuro, pece soprattutto. Pochi, però.
Troppo stretta e angusta la mia stanza, per poterla colorare…
A Marta non piacevano le cose scontate. La divertivano il sottosopra, mostri e sangue, schiene curve, unghie e graffi, candele sciolte, dischi di vinile: acid house.
L’inferno, prima della morte boia. Scintille d’ossa. Furia animale. O noia.
Io non sopportavo le tipe normali.
L’orgia cristiana del bla bla bla.
Andavamo d’accordo io e Marta.
Niente da dire.
Ci pigliavamo.
Non la reggeva Dino. Nemmeno il suo sguardo. Marta gli ricordava l’odore primitivo del suo ex, Buba, come gli morsicava le dita.
Di lingua sulle unghie. Morbido di labbra sui polpastrelli. Poi infilate nella bocca.
Buba, che gli leccava i mignoli, e lo lasciava fare. Prima di filarsi muscoli e grugno di uno scaricatore di porto. Dino ci rideva di gusto: Buba, un paio di scarpe qualsiasi.
Lo infastidivano i jeans squarciati, le borchie bullonate, i collant a rete di Marta. Quei suoi sandali appuntiti e le perline colorate. I piedi, e i talloni, che volentieri al mio posto avrebbe addentato o riempiti di baci.